Niente da nascondere
Il secondo film di questa rassegna, Niente da nascondere (Caché), di Michael Haneke, mostra in modo magistrale fin dove può spingersi un soggetto che fonda le sue scelte e i suoi comportamenti sul movimento conservativo più semplice e forse proprio per questo più diffuso: la rimozione.
La rimozione, che è sinonimo di negazione, esercitata su tutto e tutti. Ed è così che Georges Laurent, scaltro uomo televisivo (monta le interviste fatte ai suoi interlocutori con fredda spregiudicatezza) e marito e padre distratto, arriva a negare l’evidenza pur di non affrontare la realtà – ovvero i problemi, le richieste dell’altro, la complessità che compone qualsiasi fatto, il peso del passato; con la conseguenza, poi, di risolvere l’inevitabile senso di colpa che tale modalità finisce per rilasciare in chi se ne fa portatore, e tanto più se portatore attivo – aggredire l’altro che mette in discussione la propria “versione dei fatti” e ancor più l’ideale dell’io – con la più facile e disumana delle frasi: “Io non sono responsabile”.
Affermazione che con una facilità estrema -basta dirlo! anche se non è vero…- in un sol colpo esclude l’altro e rafforza l’illusione di un io integro e forte; e affermazione tanto più pericolosa se all’enunciato si fa seguire un agire cieco e determinato. Georges, bambino viziato e adulto fatuo e irresponsabile, è infatti anche un uomo “disposto a tutto pur di non perdere niente”, come gli viene detto dall’uomo che subirà, e in modo devastante, le conseguenze delle sue azioni.
E se, come è stato scritto da Arendt, l’azione è realmente tale, pienamente umana, soltanto quando reca con sé due condizioni: la pluralità, in quanto chi agisce lo fa sempre insieme agli altri (e non ‘per’ o ‘contro’), e il coraggio, ovvero la coscienza di far coincidere l’azione con la nascita di qualcosa di nuovo, ecco allora che Georges, mancandole entrambe, finisce per fallire miseramente la sua impresa umana.
Georges per esistere nega infatti la complessità dei fatti, la differente posizione degli altri, le proprie contraddizioni (e con esse il dolore). Salvo crollare a momenti, e che però, in quanto vissuti soltanto con le emozioni, come fosse ancora un bambino, non producono in lui nuova coscienza né cambiamento nei comportamenti. Georges continua ad agire sempre lo stesso meccanismo fatto di chiusure e minacce.
E come le tende chiuse in una delle ultime scene non lo proteggeranno dalla pesantezza del mondo fuori -pesante proprio perché così a lungo negato: un accumulo di negatività- così lo sguardo del regista non lo risparmierà dal farne lo sfondo per evidenti considerazioni morali ed estetiche -in che modo si guarda, si valuta, si prendono decisioni?
Aggredire per conservare la propria fortezza privata, e farlo con gesti e parole ‘discreti’ (minacce anche queste controllate), che non rompono con fragore la normalità ma che lo stesso immettono in un vicolo cieco, è anche il meccanismo che regge molti film del regista iraniano Asghar Farhadi (Una separazione, Il cliente).
Due sguardi che articolano una morale la cui forza sta anzitutto nel modo rigoroso con cui analizza e mette in scena la ‘posizione’ dei soggetti protagonisti -così che poi chi guarda il film non può a sua volta non ‘posizionarsi’: curioso che diversi critici e spettatori abbiano invece deciso di ascriverli alla vulgata cinica.
Secondo appuntamento per il ciclo “sguardi e soggettività” in collaborazione con il sito Schermaglie cinema, inoltre.
Martedì 9 maggio, ore 21.30
ingresso 3,00 euro