crepa padrone, tutto va bene

Tout_va_bien

di Jean-Luc Godard e Jean-Pierre Gorin

con Y. Mondant, J. Fonda, V. Caprioli

(Fra.-Ita., 1971, 90′)

ingresso 3€

 

 

Star in fabbrica*

Nella primavera del 1971 una voce comincia a correre negli ambienti cinematografici: Godard si appresta a girare un film “commerciale”, ad alto costo, con star e capitali americani. La notizia sorprende solo chi si era fatta l’immagine di un Godard plagiato dal velleitarismo dei gruppuscoli politici e ormai perso alla causa del Cinema, come un cineasta tramontato, un atleta che aveva speso tutto se stesso nelle prime gare senza prepararsi una vecchiaia dignitosa. A rafforzare questa impressione interviene un episodio che pare definitivamente concludere la carriera del più significativo regista degli anni Sessanta: nel luglio 1971 Godard è vittima di un gravissimo incidente stradale, in piena Parigi. Per alcuni giorni versa in pericolo di vita e, anche quando il peggio è scongiurato, pare che lesioni irreparabili gli impediscano per sempre di continuare a lavorare. Invece, e sia pure attraverso difficoltà e ricadute che lo costringeranno di tanto in tanto a sottoporsi a cure e rieducazioni, egli si riprende e continua la preparazione del suo nuovo film, che girerà nei primi mesi del 1972.
E’ firmato, assieme, da Jean-Luc Godard e Jean-Pierre Gorin, ma non più dal Gruppo Dziga Vertov, che è da considerare definitivamente sciolto, e si intitola Tout va bien. Le due star annunciate sono Jane Fonda e Yves Montand, ma la coproduzione italiana (che lo fa uscire con il volgare titolo Crepa padrone tutto va bene) giustifica anche un importante ruolo per Vittorio Caprioli, bravissimo nella parte di un “italiano con passaporto francese” (come invece è nella realtà Montand). Il film esce a Parigi con una grande campagna promozionale che punta sul “ritorno” dell’ex enfant terrible e viene accolto dalla perplessità di tutta la critica che, essendosi disinteressata ai film degli anni precedenti, è ora costretta a ricollegarlo alla Cinese o magari a Pierrot le fou, con inevitabili smarrimenti e incomprensioni. Ma è vero che il film è anche il ritrovamento (peraltro annunciato) di un’idea di cinema evidentemente mai abbandonata: come un ritorno in avanti, che non rinnega nessun passato e procede nella ricerca di un cinema che non smette di voler essere politico ma vuole anche essere sempre più personale, sincero, concreto. E infatti dall’altra parte i gauchi-stes più dogmatici, che considerano ormai Godard uno dei loro (più per opportunismo che per vera partecipazione alla sua ricerca) si scandalizzano per l’impiego dei divi, perché in un film che parla di scioperi e fabbriche non si usano dei veri operai per interpretare le parti di operai, come fa in questo stesso momento Martin Karmitz con Coup pour coup.
La risposta di Godard ribadisce, non senza qualche semplicismo, la sua teoria del parallelismo fra lavoro estetico e lavoro manuale:
«Come rappresentare gli operai sullo schermo? I militanti non si fidano degli attori, chiedono agli operai di interpretare se stessi. Dall’altra parte il cinema tradizionale prende delle vedettes e fa loro interpretare ruoli proletari. Noi pensiamo che nella situazione attuale un operaio reciterà come Jean Gabin, egli non può incarnare la sua condizione ma solo raccontarsi. Così abbiamo preso sì attori per le parti da operaio, ma attori oppressi e sfruttati.»
E quanto alle vedettes, si tratta di capire che uso farne. Anche se Tout va bien annuncia e già rappresenta la fine di un periodo, Godard ne parla ancora con il linguaggio degli “anni Mao”:
«Prendere l’offensiva oggi è fare Love Story ma in modo diverso. E dire: state per vedere un film, un film d’amore con i vostri attori preferiti. Si amano, litigano come in tutti i film. Ma ciò che li separa o li riunisce noi lo chiamiamo: lotta di classe.»
Godard e Gorin riconoscono insomma che per fare un film “visibile”, non destinato solo a un pubblico d’avanguardia, occorre accettare certi codici produttivi e rappresentativi già definiti “borghesi”, ma riaffermano l’esigenza ancora mao-vertoviana di situarne gli elementi, denaro e attori, trama e spettacolo, i materiali del cinema insomma, all’interno delle loro coordinate economiche, politiche e storiche. Il film inizia infatti con un cartello che ne dichiara la collocazione temporale, la volontà di sintesi e forse anche di bilancio conclusivo di una stagione: «Maggio 1968 — Francia 1972».

 Dopo i titoli, sui quali si sente la voce dell’addetto che batte i ciak, appare una mano che firma gli assegni necessari per pagare il personale e il materiale che servirà al film, mentre un dialogo fuori campo fra un uomo e una donna ricorda che per fare un film occorrono capitali, attrezzature, un paio di star, una storia d’amore. Tutto ciò, essa continua, si deve poi collocare in un luogo preciso, la Francia, dove ci sono operai, contadini, borghesi. Le immagini e il commento presentano allora ritratti statici di «contadini che contadinano, operai che ope-raiano, borghesi che borgheseggiano». Ma la calma tautologica delle classi è solo apparente, e si vedono allora inquadrature di scontri, scioperi, lotte. Poi i due personaggi-star appaiono, in una tipica scena d’amore godardiano, ripresa pari pari dall’altro vecchio film di star, Le Mépris-. «amo i tuoi capelli, i tuoi occhi, la tua bocca, il tuo culo… Allora mi ami totalmente». Lui (Yves Montand) è un regista che ha cominciato con la Nouvelle vague, che nel ’68 ha fatto film militanti e che ora vive di pubblicità aspettando nuove idee e nuove occasioni. Lei, Susan Dewaere (Jane Fonda) inviata di una tv americana a Parigi, cerca quando può di far passare come informazioni le sue simpatie per la sinistra rivoluzionaria. Quando si recano per un servizio in una industria alimentare occupata dagli operai, la Salumi S.A., vengono sequestrati dagli scioperanti che non intendono fare distinzioni fra padroni e intellettuali. Susan fa comunque le sue interviste. Il direttore Marco Guidotti (Vittorio Caprioli) espone una sua lunga e ridicola analisi sui meriti del capitalismo moderno e sull’anacronismo della lotta di classe. Un sindacalista lamenta l’irresponsabilità dello sciopero selvaggio e snocciola cifre su cifre, in perfetto “sindacalese”, per giustificare ragionevoli rivendicazioni salariali. Ma gli operai polemizzano con lui e raccontano con frasi semplici le difficoltà della loro vita e del lavoro. E continuano a comportarsi “irresponsabilmente”, anche con gesti comici, come quando tengono il gabinetto “occupato”, cantando l’Internazionale, e costringendo il direttore a una penosa e ridicola attesa. E mentre fra i sequestrati nascono tensioni e reazioni essi vivono l’occupazione come momento di conoscenza reciproca e divertimento collettivo. Ma si rivolgono anche alla cinepresa con parole molto dure verso il padrone e per far capire ai due professionisti della comunicazione la loro condizione li mettono a fabbricare salami assieme a loro.
Dopo cinque giorni i due vengono rilasciati e tornano alle loro occupazioni ma l’episodio ha messo in crisi le loro certezze. Lui interrompe le riprese di un film pubblicitario con canzoncine e ragazze che danzano per iniziare accanto alla cinepresa una lunga confessione e riflessione sulla sua storia di intellettuale, sul suo lavoro, sul suo impegno politico, sulle sue speranze, dubbi, prospettive attuali. Lei, prima di iniziare una trasmissione, racconta a sua volta la sua storia e le sue attuali incertezze e, quando va in onda, si blocca e non riesce più a trasmettere semplici e anonime notizie. A casa poi anche il loro rapporto va in crisi, si rivela come una generica comunanza di interessi separati: cinema, denaro, sesso, idee progressiste. La discussione diventa un litigio e i due si separano. Ma il film continua e fa propria la loro riflessione, cominciando a inserire nel loro dialogo e nelle sequenze successive immagini di sesso (una fotografìa pornografica), di lavoro, di lotte. Lui, ora solo, critica il suo sinistrismo superficiale mentre si vedono episodi, ricostruiti ma riferiti dalla voce off a fatti reali, di scontri, manifestazioni e repressioni poliziesche degli ultimi anni. Lei si reca per un’inchiesta in un ipermercato (dove c’è anche un imbonitore comunista che vende i programmi del partito a prezzo scontalo, come fossero biscotti e detersivi) e assiste all’irruzione di un gruppo di gauchistes, guidati da una ragazza (Anne Wiazemski) che annunciano che tutto è gratis ed iniziano a saccheggiare gli scaffali, imitati, di soppiatto, dagli stessi poliziotti intervenuti per manganellarli. Qualche tempo  dopo lui e lei si ritrovano in un bar e ricominciano a parlarsi, ma non si sente quel che si dicono. Basta sapere, dicono le due voci fuoricampo dell’inizio, che potranno ricomporre su nuove basi la loro coppia poichè “hanno cominciato a pensarsi storicamente”. Si rivedono alcune delle precedenti inquadrature mentre il commento auspica che “ognuno possa essere lo storico di se stesso”.

 Non è diffìcile ritrovare in Tout va Bien  personaggi e procedimenti di tutto il precedente cinema godardiano. Dalla figura della giornalista americana a Parigi, reincarnazione della Patricia di A’ bout de souffle, e con quell’accento straniero che Godard ha sempre amato nelle sue protagoniste, all’esplicito autobiografismo del regista, che nel suo lucido e sofferto monologo riprende, anche nella composizione dell’inquadratura, quello di Caméra-Oeil. Ma, semplificata e depurata dalle ultime rigidità teoriche, resta anche in Tout va bien la struttura autoriflessiva e autocritica (i personaggi si trasformano assieme al film e attraverso esso) mentre l’esibizione del cinema nel cinema è ripresa in chiave economica e diventa rivelazione del budget, dichiarazione delle condizioni finanziarie e commerciali di realizzazione del film stesso. Per analizzare la realtà sociale, storica e individuale, se si è in un film di finzione, occorrono strumenti della finzione, idee di messa in scena. Allo spaccato economico della produzione di un film corrisponde lo spaccato letterale della fabbrica, ricostruita in studio in una sezione totale che ne mostra in un’unica immagine i diversi locali, sui diversi piani, in ognuno dei quali si svolgono i diversi episodi dell’occupazione. Un’inquadratura che preannuncia “dal vero” il prossimo uso dello schermo diviso e della compresenza in esso di diverse immagini, ma che continua anche, geometrizzandola, la pratica dell’inquadratura come citazione e accumulo. E anche la lunga sequenza del supermercato è mostrata attraverso uno schema di ripresa insieme rigoroso e suggestivo: un va e vieni di carrellate laterali che tengono in primo piano la lunga serie di casse (l’economia prima di tutto) incontrando o lasciando nel loro movimento i vari episodi che si svolgono all’interno, fra gli scaffali e le merci. Brecht, citato qui forse per l’ultima volta, è anche un movimento di macchina, una costruzione scenografica, un effetto speciale, una trovata di cinema. Il girare bene ritorna ad essere importante quanto il girare politicamente.
E dopo i personaggi esclusivamente sonori, o astratti, o simbolici degli ultimi film, ritornano qui, grazie a due star, accettate magari opportunisticamente, degli individui “reali”, certo ancora divisi fra il loro essere personaggi e essere attori, fra la loro funzione narrativa e dichiarativa, ma capaci di gesti, emozioni, azioni di una storia d’amore. Riappaiono l’uomo e la donna, riappare la coppia come dualità dialettica ma anche come confronto di persone, di corpi, di sessi. Emerge, magari attraverso la provocazione di un’immagine pornografica, una fisicità che avrà sempre più peso nei film futuri. E anche per la vita privata e di coppia di Godard Tout va bien rappresenta un film cerniera. Vi ha un ruolo per l’ultima volta, nel suo solito personaggio ormai quasi anacronistico di ragazza ganchiste, Anne Wiazemsky, mentre nei titoli di coda appare il nome della fotografa di scena Anne-Marie Miéville, sua prossima compagna e frequente co-autrice.

 

*brano tratto da : Jean-Luc Godard / Alberto Farassino. – Milano : Il castoro, 1996, vol. 1, pp.143-148