Ancora sul perchè gli anarchici non votano

Nell’imminenza di una nuova scadenza elettorale (le elezioni del 4 Marzo) si ripropone la riflessione sulla scelta astensionista. Essa è uno dei tratti distintivi e comuni della varia galassia anarchica, oggetto di studi ormai divenuti classici del pensiero libertario. Basti pensare alla celebre conferenza di Sebastian Faure, presentata all’Unione dei Sindacati di Parigi il 30 Novembre 1920, oggetto di uno dei nostri recenti seminari (www.libreriaanomalia.org/pensiero-anarchico-libertario/).
La risposta ovvia e in grado di sintetizzare le diverse ragioni, ribadita su un volantino degli anarchici di Carrara negli anni settanta, era: “Perché se votassero non sarebbero più anarchici”. Questo pensiero, seppure ha conosciuto revisioni e distinguo in precisi contesti storici (si pensi a Camillo Berneri) o di fronte a occasioni in cui il voto riguardava fondamentali questioni sociali (i referendum su divorzio, aborto, nucleare o acqua pubblica), è a tutt’oggi ritenuto valido e praticato. L’astensionismo si basa, semplificando, su alcuni argomenti derivati dall’analisi delle democrazie statali in rapporto a una sostanziale alternativa. Per quanto riguarda i primi, già Faure evidenziava l’assurdità logica del mandato parlamentare ad assemblee rese impotenti dall’ingerenza dell’economia, la presenza al loro interno di personaggi mediocri e incompetenti, la corruzione endemica del parlamentarismo, la nocività del Parlamento che è strutturalmente strumento di difesa e offesa del capitale. In tale quadro, che potrebbe essere approfondito, gli anarchici hanno da sempre posto l’alternativa dell’auto-organizzazione e dell’azione diretta.


Ora, però, ci sembra opportuno sottolineare alcuni importanti cambiamenti intervenuti non solo rispetto al contesto di Faure, ma anche negli anni più recenti. La cosiddetta fine delle ideologie e del mondo diviso in blocchi, si è accompagnata a un progressivo arretramento delle forme di partecipazione collettiva che erano lo sfondo principale dell’azione diretta. La trasformazione dei partiti di massa in partiti personali, l’incapacità dei sindacati di rappresentare un mondo del lavoro sottoposto a cambiamenti profondi, la compressione dei diritti, l’imposizione dell’individualismo tipico della cultura capitalista, l’incapacità delle forze sociali di organizzare una risposta radicale a tutto questo, hanno portato difficoltà nello strutturare reali alternative alla democrazia rappresentativa. È per questo che l’astensione, prima percepita come manifestazione attiva di dissenso e opera di smascheramento, rischia oggi di annacquarsi nel magma indistinto della non partecipazione qualunquista. Non è raro, infatti, che le classi dirigenti la incoraggino. Inoltre, quanto avvenuto negli ultimi anni in molti paesi europei, ha dimostrato che le elezioni non garantiscono più un argine nei confronti dei movimenti fascisti e xenofobi che prima vivevano ai margini per mantenere l’equilibrio borghese, ma che oggi aspirano al governo.
Ci troviamo, oggi, con liste dichiaratamente fasciste e xenofobe, e che non hanno alcuna remora a sbandierare programmi contrari a quello che loro stessi hanno votato, magari sotto altra sigla, nei precedenti governi. L’insieme di questi fattori determina un ulteriore messa in discussione del voto utile: non più solo il voto dato a quel partito nel quale non si crede fino in fondo, ma che ha qualche chance di vittoria e di fare un po’ meno peggio degli altri, ma il voto come strumento in sé utile ad arginare l’affermazione delle forze più reazionarie, in nome di valori fino a poco tempo fa comuni, come la resistenza o l’antifascismo. Insomma, è ormai dubbio che un governo della Lega o del PD sia sostanzialmente diverso. I più ottimisti credono anche che, a dispetto di tutto, il parlamentarismo, se sostenuto da un impegno militante di base, lasci comunque degli spazi dialettici e determinabili dai rapporti di forze. Altri vedono nelle elezioni anche l’occasione per raccogliere le forze migliori che, vivendo la scadenza elettorale come fase di un percorso di costruzione, mirano in realtà alla ricomposizione di un soggetto in grado di rappresentare le categorie sociali orfane di una rappresentanza di sinistra. È questo forse il caso di esperimenti come l’attuale Potere al popolo, il cui programma contiene elementi interessanti e che sembra potersi porre come lista di sinistra.
Se anche tutto questo è vero, crediamo però che continuino a sussistere altrettante valide ragioni di astensione. Forse la più evidente è che il sistema parlamentare stesso ha dismesso ogni pudore e mostrato chiaramente come le elezioni siano un gioco che il potere tollera senza scossoni in quanto non compromettono gli equilibri fra le classi sociali. Equilibri stabiliti, nel caso italiano, dalla borghesia del capitale e dalle sue istituzioni europee. Basti pensare alla presidenza Napolitano e ai governi formati non solo da non eletti, ma anche da non candidati, come Monti e Renzi; governi che hanno ciononostante stravolto il diritto del lavoro, la scuola, il sistema pensionistico, persino la Costituzione introducendovi il pareggio di bilancio. Oppure a un sindaco come Marino, eletto col 60%, e dimesso in uno studio notarile dalla classe dirigente del suo stesso partito. Questa spudoratezza nel rivelare la natura illusoria del voto, è la medesima che si riscontra nella qualità della classe politica, per la quale ora molto più che prima vale la definizione di Faure di mediocri e incompetenti. Anzi, l’incompetenza stessa, mascherata da novità, viene ormai sbandierata come un valore, in un analfabetismo linguistico e politico che ha elevato l’approssimazione a cifra comune del sistema, compressa nei pochi caratteri adatti a un tweet. Elezioni come vuoto rituale, centri decisionali trasferiti altrove – a Bruxelles o nelle sedi delle multinazionali – incapacità della classe dirigente, impossibilità di individuare partiti o individui veramente in grado di rappresentare le idee che animano la nostra azione (redistribuzione della ricchezza, società strutturate orizzontalmente nel rispetto delle autonomie, scelte razionali dal punto di vista ambientale, assenza di sfruttamento nei rapporti di lavoro, percorsi educativi completi e corrispondenti alla libertà della persona, tutela delle diversità ecc…) sono tutti fattori che ancora concorrono a una nostra scelta astensionista.


Questa però non può coincidere con il vano qualunquismo del “tanto sono tutti uguali e rubano tutti”. Se l’astensione parte da una analisi, quella che abbiamo tentato di svolgere, essa deve necessariamente arrivare a una azione auto-organizzata. Siamo consapevoli delle difficoltà che si hanno ormai nel praticarla, per le ragioni viste prima, ma non c’è altra via rispetto al semplice stare a guardare le decisioni prese da altri e altrove.
Sullo sfondo dell’eclissi della politica e della trasformazione della democrazia parlamentare in democrazia governamentale (che comporta la fine dell’illusione della rappresentanza) un programma minimo potrebbe essere la (ri)costruzione di una coscienza individuale, o nei gruppi di cui si fa parte, per riuscire quantomeno a portare negli ambienti di vita quotidiana la percezione di una reale alternativa.