…E PENSARE CHE DOVEVA ESSERE UN’ARMA…
riflessioni sugli effetti della cultura “per tutti” dagli anni ’70 ad oggi
Negli anni sessanta e settanta alla domanda sul come perseguire una società diversa, più libera ed egualitaria, e su quali strumenti occorressero alla realizzazione di questo scopo, la cultura venne subito individuata come risorsa ideale e imprescindibile di emancipazione e sovvertimento sociale. Il suo fluire così come il conseguente attecchire nelle coscienze e nelle condotte individuali venne pensato non più “verticale”, cioè ad opera di istituzioni scolastiche o mezzi di comunicazione di massa, meno numerosi rispetto ad oggi ma già potenti e pervasivi, ma “orizzontale”, ovvero teso alla trasformazione di ogni individuo in fruitore e creatore al tempo stesso.
A distanza di quarant’anni, da un confronto diretto con chi ha vissuto quella stagione e contestualmente spinto e contribuito a questa idea rivoluzionaria di società liberata attraverso la proletarizzazione della cultura, abbiamo maturato la necessità di interrogarci sugli effetti o comunque sugli esiti che un simile approccio abbia generato nel medio lungo periodo, fino ai giorni nostri.
Abbiamo avuto il sentore, più di una semplice percezione per la verità, che l’accesso ai dati e alla conoscenza non sia stato reso più libero, quindi creatore e dispensatore di una nuova coscienza politica atta a ribaltare esistenze sia singole che collettive, ma semplicemente più immediato, o come si sente dire più spesso: “per tutti”. Con l’unico risultato di aver espanso il livello culturale medio, ma di aver lasciato che il sapere maturato si mettesse al servizio di scopi funzionali al sistema o a nuove forme di servitù volontaria: stesso traguardo, per altro, raggiunto anche dalla scolarizzazione avanzata.
Forse, con il passare degli anni, si è dimenticato il fine ultimo della produzione e della fruizione del sapere, concentrando tutte le energie nello spargimento di quella melliflua illusione che il riscatto sociale potesse avvenire soltanto per mezzo della ricezione passiva di quella cultura ormai liberata dai vecchi forzieri che la tenevano nascosta. Il tutto senza più discernere (o facendolo meno) da dove questa cultura provenisse, se fosse il frutto di studi finalizzati soltanto a scopi accademici o consumistici o fosse il riflesso di chiare conflittualità soggettive trasformate poi in volontà di studio, decostruzione e distruzione delle varie circostanze di oppressione poste in essere da apparati di potere sempre in continua trasformazione e dissimulazione.
Il sapere che in molti avevano in mente, e che abbiamo in mente tuttora, non può trasformare o direzionare percorsi di crescita personale, non può scolpire materia misera, se prima non scolpisce, un po’ come gli uomini preistorici costruivano e modellavano i propri arnesi, gli stessi strumenti con i quali ci si approccia alla ricerca. Non è sufficiente accumulare dati, nozioni o abilità se non si affinano parimenti le domande da porsi di fronte alle fonti, ovvero l’urgenza di immaginare e costruire radicalmente un modello sociale diverso.
Il passaggio dalla proletarizzazione della cultura alla sua democratizzazione, o popolarizzazione, oltre che subdolo e per certi versi quasi indolore, ha annacquato l’elemento sovversivo per il quale era stata concepita annichilendo la volontà di ricerca e di messa in discussione: dal lato delle finalità ci si è rassegnati, per non dire addestrati, a soddisfare quelli just in time della sottocultura di massa, quella pop, con i suoi ritmi, le sue approssimazioni, la sua necessità di rendere tutti partecipi, protagonisti, finalmente emancipati, o soltanto illudendoli di esserlo, di divertire e di moltiplicare serialmente tutte le espressioni produttive e creative; dal lato del metodo e degli strumenti, ci si è arenati su una sconcertante banalizzazione di alcune basi di argomentazione critica sorvolando sui concetti cardine, quando dati per scontati o sufficientemente acquisiti, quando non addirittura giudicati superati o anacronistici, o facendo ricorso a forme di comunicazione “diretta” sotto forma di imperativi/slogan di stampo e mero effetto pubblicitario, perché, anche questi, di più immediata comprensione e consumo.
Nel frattempo i nuovi mezzi tecnologici, soprattutto quelli digitali largamente diffusi sia nella creazione che nella fruizione dei vari materiali culturali per la loro rapidità e l’immediata capacità di risoluzione di molti aspetti pratici, sono stati letti e interpretati, nella maggioranza dei casi, come panacea di qualsiasi lacuna individuale o peggio ancora, come scorciatoia verso il raggiungimento di obiettivi esclusivamente professionali, o per meglio dire carrieristici.
Da tutto questo, la cultura ne è uscita degradata, ridicolizzata, svuotata di senso e di efficacia: da strumento di lotta e arricchimento morale, da progetto di vita e per la vita, a oggetto di infatuazione alla stregua di qualsiasi altro bene di consumo, assumendo le sembianze del cosiddetto lavoro culturale (di bianciardiana memoria), ovvero una possibilità “alternativa” di avanzamento e riconoscimento sia sociale che reddituale, con i connotati consolatori del “per tutti e dal basso”, ovvero, tradotto in termini di fatto, a basso impegno e a basso costo.
Ne hanno fatto le spese arti e mestieri frequentati sempre più spesso da soggetti in chiara direzione arrivistica e nella presunzione di essere in possesso di sufficienti basi di conoscenza scambiando i propri hobbies, coltivati in maniera più o meno avanzata, per professionalità vera. Ne hanno risentito tutti gli spazi sociali, in parte vittime, in parte complici, svuotati di militanti e di contributi sia fisici che economici assidui, ma gremiti all’inverosimile di “avventori culturali” o pseudo tali nelle occasioni mondane. Ne subiscono il peso, senza per altro capirne, in molti casi, i motivi reali, tutti quei lavoratori e quelle lavoratrici che non hanno più capacità di lettura del proprio misero destino relegati, just in time, a mansioni o servizi di cui non indagano la reale prospettiva o utilità.
Difficile, per tanto, in un contesto simile, anche solo immaginare lotte con progettualità diverse dall’immediata soddisfazione di bisogni primari o vertenze lavorative che lascino tracce di individualità veramente riscattate, ovvero vite spese in militanza quotidiana.
Noi compagni e compagne del CDA di Anomalia diciamo queste cose ben consapevoli dei nostri limiti, delle nostre contraddizioni e dei nostri errori, uno fra tutti quello che ci ha mantenuto in isolamento rispetto a realtà molto diverse dalla nostra ma comunque attive nel territorio, in particolare sotto forma di divulgazione culturale anche mediante archivi e biblioteche autogestite. Ed è in virtù di questa riflessione, e con una rinnovata volontà di apertura, che da circa un anno a questa parte il CDA è parte integrante del progetto RABbIA, una rete di archivi e biblioteche autogestiti creata con lo scopo di mettere in condivisione il materiale presente nelle varie strutture e di consentirne la ricerca attraverso la costituzione di un catalogo unitario pubblicato sul sito http://www.inventati.org/rabbia.
La nostra partecipazione alla rete, nel rispetto e nel dialogo con tutte le altre strutture che ne fanno parte, vuole però affermarne anche la propria diversità ideologica, fondativa e culturale. Il progetto del CDA e della libreria Anomalia di via dei Campani, nato alla fine degli anni settanta, forte della sua matrice libertaria e della convinzione dell’effettiva praticabilità dell’autogestione, non ha mai chiesto né contemplato nessuna forma di riconoscimento o finanziamento da parte delle istituzioni statali, ponendosi quindi, rispetto a quest’ultime, in posizione di “naturale” antagonismo sia per costituzione iniziale sia per il successivo sviluppo e mantenimento fino ai giorni nostri.
I materiali raccolti, libri riviste e documenti prodotti dal movimento dagli anni sessanta in poi, sono stati scelti e selezionati sia per garantirne la conservazione e quindi la trasmissione alle generazioni successive, sia per creare non solo la base ma soprattutto lo sviluppo di percorsi culturali e politici che rafforzassero e intrecciassero sapere e vissuto quotidiano, in un reciproco scambio di energie, nodi e conflitti da approfondire e sciogliere. Per fare questo, e partendo anche dal problema della catalogazione, è stata ferma intenzione dei compagni e delle compagne quella di non interpellare nessun canone istituzionale, ma di classificare il materiale partendo dalle esperienze reali, dai contenuti e dalle rivendicazioni sostenute dal movimento nell’obiettivo, poi raggiunto, di creare un archivio che non avesse i connotati della “scientificità” ma che privilegiasse il più possibile le tematiche e i momenti di lotta piuttosto che gli enti produttori.
In questa aderenza di mezzi e fini, il CDA concepisce la sua “anomalia” sulla base della volontà precisa di non collocarsi né come servizio alternativo, suppletivo o sussidiario rispetto alle carenze strutturali di matrice pubblica o istituzionale, né come assetto parallelo, diverso di facciata ma uguale per modalità, rispetto a quelli già esistenti.
Piuttosto, a partire dall’idea con cui si è costituito, il CDA riafferma la domanda di un approccio diverso al sapere e agli strumenti adatti ad acquisirlo, che sia spinto ed orientato da una forza e da un impegno quotidiano verso la lettura e il cambiamento reale della società.
Libreria Anomalia – Centro di documentazione Anarchica